Vi presento Kαιρός ( Kairós )

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Kαιρός ( Kairós ), in greco antico, significa:

‘momento in cui accade qualcosa di speciale’.

Kαιρός ( Kairós ) è il significato che ha, per me, la psicologia.

Con il cuore che batte forte, vi presento, Kαιρός ( Kairós )!

Errori da Giraffa – Relazione di coppia, Terza Puntata

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Come anticipato, vi racconto gli errori tipici della Giraffa…

Errore 1: Contesto non contestualizzato.

Invece di riferirsi ad un evento specifico, la Giraffa sbaglia e fa riferimento a contesti troppo vasti o indefiniti: nella vita, nel lavoro, con me, con lei/lui…

Esempio:

Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.

Sembrerebbe tutto rispettato: contesto, emozione, proposito.

Eppure non va e l’altro risponde qualcosa del tipo: “Ma cosa stai dicendo? E ieri allora? quando ti ho accompagnato…”

Ne consegue la cosiddetta ‘escalation’, ossia un aumento delle difficoltà comunicative in cui i due membri della coppia si rispondono ‘al rinfaccio’, dimenticando l’argomento iniziale della conversazione.

La domanda che potete porvi è: sempre-sempre il suo comportamento è indiffferente con me? Oppure c’è un momento specifico in cui ho sentito questa cosa?

È importante circoscrivere il contesto!

  • Prima, quando ti ho chiesto…
  • Ieri, alla cena…
  • Quando mi dici questa frase…
Errore 2: Etichettare l’altro

Usiamo l’esempio di poco fa:

Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.

Quell’aggettivo, ‘indifferente’, è un’etichetta, ossia un modo per definire l’altro e non il suo comportamento. L’attribuzione di un’etichetta tende a portare a difendersi e a disconfermarla: chi la riceve non la sente sua e può percepirla come un’accusa.

La Giraffa non riesce, così, a farsi capire.

Errore 3: Emozione che non è un’emozione

Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.

‘Non amata’ non è un’emozione! In questo caso è come se si stesse dicendo all’altra/o che non ci ama! Ancora una volta, l’altra/o vorrà difendere i suoi sentimenti che, tra l’altro, le/gli sembreranno non capiti.

Di nuovo, la Giraffa non usa bene il suo linguaggio.

Errore 4: Proposito mal formato

Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.

Quel ‘vorrei che fossi più presente’, più che essere un proposito, è un’altra, velata accusa: tu non sei presente.

Inoltre: cosa intendiamo per ‘presenza’? E cosa potrebbe intendere l’altro? Il rischio è di non aver comunicato in modo efficace perché la stessa parola possiede significati operativi diversi per i due membri della coppia.

Il proposito va ben formato, ossia, bisogna chiedersi che cosa si desidera, che cosa si vuole proporre. Ad esempio, un’azione concreta.

  • [Contesto] [Emozione] vorrei che mi preparassi la cena quando arrivo tardi.
  • [Contesto] [Emozione] vorrei che mi venissi a vedere al concerto.
  • [Contesto] [Emozione] vorrei che guardassi con me un film.

Ricapitolando, una frase in buon Giraffa suona più o meno così:

Quando mi hai risposto che non saresti venuta/o a vedermi al concerto, mi sono sentita/o triste perché ho pensato all’indifferenza. Mi piacerebbe molto che al prossimo concerto venissi anche tu.

Meglio del:

Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.

Vero? 🙂

Dott.ssa Francesca Fontanellagiraffa_errore

 

 

 

 

 

 

Nutri la Giraffa che c’è in te! Relazione di Coppia, Seconda Puntata

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Litigio di coppia: vi è mai capitato di fare la giraffa?

C’è chi fa lo struzzo, chi la pantera, chi il gatto, il leone… ma la giraffa? La giraffa, la avete mai fatta?

Qui si sta parlando sul serio e a dare il suggerimento di fare la giraffa è Marshall Rosenberg, psicologo americano che ha studiato la comunicazione. Rosenberg ha identificato alcune linee guida per comunicare in modo efficace e ridurre fraintendimenti e comportamenti aggressivi e gli è piaciuto attribuire l’abilità comunicativa alla giraffa.

Se vi state chiedendo perché, fate bene. Il punto è che, spiega Rosenberg, la giraffa, anatomicamente, è l’animale terrestre con il cuore più grande. Ne deriva che può  essere un buon simbolo della “comunicazione con il cuore grande“.

Ora, a parte questo giochetto linguistico del nostro Rosenberg, volete conoscere i 3 passaggi più importanti di una comunicazione come quella della giraffa? Siete pronti a provarli nella vostra relazione di coppia (e, perché no, in altre?)

Allora… si tratta di costruire le frasi ricordando di:

  1. Contestualizzare
  2. Esprimere un’emozione
  3. (Motivare l’emozione, facoltativo)
  4. Esprimere desideri e propositi

Quando hai dimenticato l’appuntamento, mi sono sentita/o triste, mi piacerebbe che la prossima volta ci accordassimo meglio.

Ricordi quando hai sbattuto la porta? Ho provato frustrazione perché mi è parso di non essermi fatta/o capire. Vorrei che mi chiedessi spiegazioni quando una mia frase ti provoca la reazione di andare via sbattendo la porta.

Stai dicendo una cosa per la quale provo rabbia: puoi ripetere cosa intendi?

Sono arrivata/o in ritardo e provo senso di colpa: la prossima volta vorrei organizzarmi meglio.

Sei arrivata/o in ritardo e provo rabbia perché non mi è piaciuto aspettare senza avere tue notizie: vorrei essere informata del ritardo nel caso ricapitasse.

Quindi, ricapitolando: contesto, emozione, (motivazione, facoltativa), proposito.

Fate un po’ di prove e poi, se vi va, raccontatemi i risultati!

La Terza Puntata sarà dedicata ai possibili errori in cui incappa chi fa la giraffa!

Dott.ssa Francesca Fontanellagiraffe-1544348_960_720

 

 

 

La Lotta a Pendolo: attacco o scappo?

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L’essere umano possiede una molteplicità di sistemi motivanti. I sistemi motivanti sono fattori che guidano l’individuo a manifestare un comportamento.

In alcune occasioni, motivazioni diverse entrano in conflitto tra loro (motivazione multipla), si sovrappongono e bloccano (impediscono) scelte e comportamenti.

Uno dei più noti esempi di motivazione multipla si ha quando la persona si trova in situazioni in cui, da un lato vorrebbe agire per affrontare una situazione, dall’altro vorrebbe lasciar perdere e scappare via: ‘attacco’ o ‘scappo’?

Questo meccanismo non è esclusivo dell’Uomo e appartiene a diverse altre specie animali.  L’etologia ci insegna che c’è lo zampino della selezione naturale, la quale ha operato in modo tale da favorire la comparsa di una tendenza equilibratrice del livello di aggressività.

Ne deriva un comportamento formato dalle caratteristiche comportamentali sia della parte ‘attacco’, sia della parte ‘scappo’. Questo comportamento è stato chiamato ‘Lotta a Pendolo’, per il suo oscillare da una parte all’altra.

 Come in ambito animale, spesso la ‘Lotta a Pendolo’ si presenta nelle situazioni in cui si percepisce una minaccia o un’intrusione nel proprio territorio. Per l’essere umano il ‘territorio’ si estende e può comprendere lo spazio fisico, di pensiero, emotivo.

La ‘Lotta a Pendolo’ si può verificare in ambito relazionale, lavorativo, di scelte di vita e provoca un dispendio di energie elevato che, nel lungo termine, può trasformarsi in somatizzazioni e disagi emotivi.

Un ottimo modello di azione terapeutica, in questi casi, è consentire alle parti che determinano la ‘Lotta a Pendolo’ di dialogare tra loro e di scoprire le intenzioni, gli scopi, i desideri l’una dell’altra. Ne può derivare la scelta di ‘nutrire’ una delle due parti oppure di integrarle l’una nell’altra, di affiancarle, di farle agire a turno… oppure, ancora, si può  scoprire un’altra parte e farla diventare, a sorpresa, la preferita.

Se vi sentite in conflitto e vi va di provare,

rinnovo fino al 12 ottobre 2016 l’offerta di qualche mese fa:

conflitto

 

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Dott.sa Francesca Fontanella

Contatti:

fontanella.francesca@gmail.com

345 3741840

 

 

Elogio alla Tristezza

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Che succede quando prende la Tristezza?

Parlarne con altri serve, senz’altro, ma dopo un po’… le persone, nel tentativo di incoraggiare, rivolgono incitamenti del tipo: “Dai, che passa!”.

Questi incitamenti sono apprezzabili anche se  molte volte non si rivelano utili e non producono alcun cambiamento positivo.

Perché? forsaken-1273885_960_720

In primo luogo, la Tristezza non è uguale per tutti. La durata, l’intensità, le ragioni scatenanti (più o meno note) e la sua utilità intrinseca  sono altamente variabili.

Utilità intrinseca?

Per utilità intrinseca intendo lo scopo protettivo che la Tristezza (costituita da sensazioni, pensieri, emozioni) ha per la persona.

Scopo protettivo?

Per scopo protettivo intendo la funzione che essa ha – e ce l’ha -.

In secondo luogo, perché l’incoraggiamento potrebbe non essere ciò che cerca l’organismo in quel momento specifico.

Facciamo un esempio che riguarda i meccanismi fisiologici. Se una persona ha fame, desidera cibo; nel caso in cui qualcuno le proponesse di dormire, la persona potrebbe provare fastidio perché il suo desiderio non è rispettato.

Lo stesso può dirsi se l’organismo sta provando Tristezza: ha bisogno che l’emozione che prova sia rispettata e accolta. In questo modo, la Tristezza, piano piano, si trasformerà in nuove possibilità.

Se non è rispettata, la Tristezza insiste. La ragione è piuttosto semplice: poichè ogni emozione veicola un messaggio (per saperne di più, potete leggere l’ABC delle Emozioni, ecco la Prima Puntata), se questo messaggio non è ascoltato, si ripete. La conseguenza è che la Tristezza si protrae.

La Tristezza veicola un messaggio di pausa per recuperare le energie e cercare conforto: questo messaggio merita di essere ascoltato!

La Tristezza rallenta i sistemi cognitivi e fisiologici per ritrovare energia e, quindi, poter andare avanti nella propria vita.

Per celebrare la Tristezza ed onorare il messaggio utile che porta, potete usare la musica.
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Una ricerca molto recente condotta dal professore Van Den Tol, A. J. M e dalla sua equipe,  descrive un fenomeno interessante che collega musica e Tristezza. La ricerca indica che la struttura del brano musicale (il tipo di accordi e il ritmo, ad esempio) e i gusti personali si intrecciano per permettere alle persone di considerare ‘tristi’ alcuni brani e non altri.

Le caratteristiche del brano possono etichettarlo come triste o felice, ma non bisogna escludere l’esperienza emozionale percepita – strettamente collegata al rapporto che l’ascoltatore ha con un determinato brano musicale (Van Den Tol, et al., 2016, 69).

L’ascolto delle canzoni ‘tristi’, secondo i risultati della ricerca, è d’aiuto nell’ accettare ed affrontare una difficoltà.

La musica ‘triste’, infatti, permetterebbe alle persone di avere una ri-esperienza del proprio vissuto e di creare uno spazio di riflessione e produzione di nuove possibilità.

Come dire che, ascoltando musica ‘triste’, la persona può rigenerarsi, sentire rispettata la sua situazione emotiva e concedersi il tempo per elaborare quanto accaduto e riprendere in mano la sua vita.rain-1567616_960_720

Dott.ssa Francesca Fontanella

Riferimenti Bibliografici:

VAN DEN TOL, A. J. M. et al. (2016). Sad music as a means for acceptance-based coping. Musicae Scientiae, 1, 68-83.

 

 

 

L’Effetto Rimbalzo: quando un’emozione produce effetti secondari

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Immagine pixabay/Open ClipArt Vectors

Il costrutto di Effetto Rimbalzo non esiste! 🙂 Mi sono inventata questo nome per descrivere un fenomeno abbastanza frequente che ha a che fare con i comportamenti guidati dalle emozioni.

Quando si prova un’emozione, si agisce un comportamento legato a quell’emozione.

Ad esempio, si può urlare per la rabbia o per il dolore, restare in silenzio e con il volto serio per la tristezza o per la rabbia, allontanarsi per la paura o per la vergogna…e così via.

Ora vi chiedo di immaginare una situazione in cui vi sia capitato di provare un’emozione e di aver agito un comportamento che non vi piace.

Potrebbe trattarsi del caso in cui, provando rabbia, si è urlato nei confronti di una persona cara, dicendo parole che possono averla ferita.

Oppure potrebbe trattarsi di un momento in cui vi siete allontanati da una situazione per la paura, lasciando un amico a cavarsela da solo.tornado-304745_960_720

In questi casi, cosa può succedere in seguito?

Può succedere che, passata la fase di allarme (il picco emotivo), si cominci a percepire l’emergere di un’altra emozione, secondaria a quella che aveva portato ad agire il comportamento che non è piaciuto. Questa emozione può essere senso di colpa, rabbia, tristezza, vergogna, paura…e si riferisce o a quello che si pensa di se stessi e del comportamento agito oppure alle conseguenze che si pensa possa avere quel comportamento sulla relazione con gli altri e sulla propria vita.

Questa emozione ci si ritorce contro: il comportamento agito rimbalza contro di sé sotto forma di emozione secondaria. È l’Effetto Rimbalzo.

A me, l’Effetto Rimbalzo, piace. Mi dice molte cose rispetto al comportamento che ho messo in atto, alla persona che vorrei essere e a ciò che vorrei e potrei fare per essere me stessa al meglio.

L’Effetto Rimbalzo aiuta a conoscere le proprie reazioni, emozioni ed i pensieri sotto(e sopra)stanti; ad anticipare e prevenire le possibili emozioni secondarie e, qualche volta, anche il comportamento spiacevole.

Tutto questo vale se…

Tutto questo vale se:

  • Si è interessati ad osservare con occhio critico i propri Effetti Rimbalzo e a trarne informazioni utili;
  • Si riconosce e ammette di non aver gradito un proprio comportamento;
  • Si riconosce di provare un’emozione secondaria.
Una storia per voi

Mi permetto di suggeririvi di dare un’occhiata ai vostri Effetti Rimbalzo, per lo meno una volta. Vi invito a farlo per non finire a subire il contraccolpo con perplessità come il protagonista di questa storia popolare. La ho conosciuta grazie al collega argentino Jorge Bucay, ma credo ve ne siano diverse versioni online. Come il solito, ecco la mia.

C’era una volta un uomo che andava in giro con un mattone in mano. Aveva deciso che lo avrebbe lanciato a chiunque avesse tentato di colpirlo. Un amico prepotente gli si rivolse in malo modo e, subito, l’uomo lanciò il mattone verso di lui. Non si sa se l’uomo sia riuscito a colpire l’amico…  fatto sta che gli sembrò una scocciatura dover andare a recuperare il mattone.

Pensò, quindi, ad una soluzione e attaccò al mattone una corda lunga un metro. Anche questo stratagemma non funzionò molto bene. In primo luogo, la persona da colpire doveva essere vicina altrimenti il mattone non riusciva a raggiungerla e, inoltre, il recupero del mattone non era comunque agevole: la cordicella si annodava e si incastrava sul terreno.

L’uomo, allora, pensò ad una terza soluzione e attaccò al mattone una molla. Al primo lancio, il mattone tornò indietro colpendolo sulla fronte. Al secondo lancio, il mattone tornò indietro colpendolo su una gamba. Al terzo lancio… dopo aver lanciato il mattone l’uomo aveva cercato di proteggere la vittima facendosi colpire nuovamente in pieno volto…

Tutti i colpi, cosa strana, si ritorcevano contro di lui… – osservava l’uomo, con perplessità -.

Dott.ssa Francesca Fontanellabeach-ball-575425_960_720

 

 

 

 

 

 

“Come si ottiene la felicità?”

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Immagine pixabay.com/narciso1

Il titolo di questo articolo è tra virgolette perché rappresenta la domanda che, oggi, mi è stata posta da  una persona: “Come si  ottiene la felicità?“

Mica una domanda da poco!

Ci sono alcune considerazioni da fare:

  1. La felicità si ottiene non in misura continuativa, ma ad episodi – momenti – di felicità.
    • La felicità è un’emozione quindi si presenta sotto forma di episodi, i cui picchi sono dell’ordine di qualche minuto (per un approfondimento sulle emozioni, potete leggere le 5 puntate dell’ABC delle Emozioni. Ecco la prima puntata.).
  2. La sensazione successiva  al picco è la condizione positiva che usualmente viene definita come felicità.
    • La sensazione che persiste dopo il picco di felicità (o tra un picco di felicità e l’altro) può essere definito in tanti modi diversi, sulla base delle prospettive individuali. Ad esempio, per qualcuno la sensazione potrebbe chiamarsi ‘soddisfazione‘, per qualcun’altro ‘serenità‘, oppure ‘tranquillità‘, ‘spensieratezza‘, ‘sicurezza‘, ‘pace‘…
  3. Ciò che produce l’episodio di felicità e la conseguente sensazione positiva sono diversi per ognuno. A tal proposito, vi racconto una storia. Non è tutta mia, anche se la racconto a modo mio. La conobbi durante il mio percorso di studi e la ritrovai qualche anno dopo in un libro di G.W.Burns. Ecco la mia versione della storia, in rima, per giocare un po’.
Alla ricerca della felicità

Un topolino, un mattino, si svegliò con una curiosità: cosa sarà mai la felicità?

Non ci aveva mai riflettuto seriamente, ma ora la faccenda si faceva urgente.

“Felicità mi sembra un parolone!”, si disse mentre faceva colazione.

“Forse la felicità è quella sensazione che provi quando brontola il pancino e lo accontenti con un panino!” pensò il topolino…

Aveva voglia di saperne di più e dopo colazione si mise a rifletterci su.

Decise di parlarne con l’orsetto, che se ne stava con il sorriso sul musetto.

Quel sorriso rilassato e rilassante, gli sembrava un segnale interessante!

“Dimmi, orsetto, per curiosità, cos’è per te la felicità?”

“Essere abbracciato stretto, ricevere affetto anche se non sono perfetto (l’orsetto aveva un orecchio un pò staccato e il pelo consumato) e fare compagnia ai piccoli quando si addormentano nel proprio letto!”

Il topolino ringraziò, salutò e andò a parlarne con il cagnolino:

“Dimmi, cagnolino, per curiosità, cos’è per te la felicità?”

“Avere tempo per starsene accovacciati e rilassati, respirare lentamente e lasciarsi coccolare dalla gente; fare corse a più non posso e mordicchiare un gustoso osso!”

Il topolino ringraziò, salutò e andò a parlarne con l’allodola:

“Dimmi, allodola, per curiosità, cos’è per te la felicità?”

“Cantare gioiosamente e con maestria, mi dà da sempre tanta allegria!”

Ormai il topolino aveva capito e scrisse sul suo quaderno:

Ognuno ha un modo tutto suo per ottenere la felicità e questa è, per me, la grossa novità!

Qual è il vostro modo per ottenere la felicità?felicita

Dott.ssa Francesca Fontanella