Kαιρός ( Kairós ), in greco antico, significa:
‘momento in cui accade qualcosa di speciale’.
Kαιρός ( Kairós ) è il significato che ha, per me, la psicologia.
Con il cuore che batte forte, vi presento, Kαιρός ( Kairós )!
Studio di Psicologia Francesca Fontanella
La tua storia, a qualunque capitolo tu sia arrivato, è una narrazione di valore. N.W. Payle
Kαιρός ( Kairós ), in greco antico, significa:
‘momento in cui accade qualcosa di speciale’.
Kαιρός ( Kairós ) è il significato che ha, per me, la psicologia.
Con il cuore che batte forte, vi presento, Kαιρός ( Kairós )!
Come anticipato, vi racconto gli errori tipici della Giraffa…
Invece di riferirsi ad un evento specifico, la Giraffa sbaglia e fa riferimento a contesti troppo vasti o indefiniti: nella vita, nel lavoro, con me, con lei/lui…
Esempio:
Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.
Sembrerebbe tutto rispettato: contesto, emozione, proposito.
Eppure non va e l’altro risponde qualcosa del tipo: “Ma cosa stai dicendo? E ieri allora? quando ti ho accompagnato…”
Ne consegue la cosiddetta ‘escalation’, ossia un aumento delle difficoltà comunicative in cui i due membri della coppia si rispondono ‘al rinfaccio’, dimenticando l’argomento iniziale della conversazione.
La domanda che potete porvi è: sempre-sempre il suo comportamento è indiffferente con me? Oppure c’è un momento specifico in cui ho sentito questa cosa?
È importante circoscrivere il contesto!
Usiamo l’esempio di poco fa:
Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.
Quell’aggettivo, ‘indifferente’, è un’etichetta, ossia un modo per definire l’altro e non il suo comportamento. L’attribuzione di un’etichetta tende a portare a difendersi e a disconfermarla: chi la riceve non la sente sua e può percepirla come un’accusa.
La Giraffa non riesce, così, a farsi capire.
Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.
‘Non amata’ non è un’emozione! In questo caso è come se si stesse dicendo all’altra/o che non ci ama! Ancora una volta, l’altra/o vorrà difendere i suoi sentimenti che, tra l’altro, le/gli sembreranno non capiti.
Di nuovo, la Giraffa non usa bene il suo linguaggio.
Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.
Quel ‘vorrei che fossi più presente’, più che essere un proposito, è un’altra, velata accusa: tu non sei presente.
Inoltre: cosa intendiamo per ‘presenza’? E cosa potrebbe intendere l’altro? Il rischio è di non aver comunicato in modo efficace perché la stessa parola possiede significati operativi diversi per i due membri della coppia.
Il proposito va ben formato, ossia, bisogna chiedersi che cosa si desidera, che cosa si vuole proporre. Ad esempio, un’azione concreta.
Ricapitolando, una frase in buon Giraffa suona più o meno così:
Quando mi hai risposto che non saresti venuta/o a vedermi al concerto, mi sono sentita/o triste perché ho pensato all’indifferenza. Mi piacerebbe molto che al prossimo concerto venissi anche tu.
Meglio del:
Con me sei indifferente, mi sento non amata/o e vorrei che fossi più presente.
Vero? 🙂
Dott.ssa Francesca Fontanella
Litigio di coppia: vi è mai capitato di fare la giraffa?
C’è chi fa lo struzzo, chi la pantera, chi il gatto, il leone… ma la giraffa? La giraffa, la avete mai fatta?
Qui si sta parlando sul serio e a dare il suggerimento di fare la giraffa è Marshall Rosenberg, psicologo americano che ha studiato la comunicazione. Rosenberg ha identificato alcune linee guida per comunicare in modo efficace e ridurre fraintendimenti e comportamenti aggressivi e gli è piaciuto attribuire l’abilità comunicativa alla giraffa.
Se vi state chiedendo perché, fate bene. Il punto è che, spiega Rosenberg, la giraffa, anatomicamente, è l’animale terrestre con il cuore più grande. Ne deriva che può essere un buon simbolo della “comunicazione con il cuore grande“.
Ora, a parte questo giochetto linguistico del nostro Rosenberg, volete conoscere i 3 passaggi più importanti di una comunicazione come quella della giraffa? Siete pronti a provarli nella vostra relazione di coppia (e, perché no, in altre?)
Allora… si tratta di costruire le frasi ricordando di:
Quando hai dimenticato l’appuntamento, mi sono sentita/o triste, mi piacerebbe che la prossima volta ci accordassimo meglio.
Ricordi quando hai sbattuto la porta? Ho provato frustrazione perché mi è parso di non essermi fatta/o capire. Vorrei che mi chiedessi spiegazioni quando una mia frase ti provoca la reazione di andare via sbattendo la porta.
Stai dicendo una cosa per la quale provo rabbia: puoi ripetere cosa intendi?
Sono arrivata/o in ritardo e provo senso di colpa: la prossima volta vorrei organizzarmi meglio.
Sei arrivata/o in ritardo e provo rabbia perché non mi è piaciuto aspettare senza avere tue notizie: vorrei essere informata del ritardo nel caso ricapitasse.
Quindi, ricapitolando: contesto, emozione, (motivazione, facoltativa), proposito.
Fate un po’ di prove e poi, se vi va, raccontatemi i risultati!
La Terza Puntata sarà dedicata ai possibili errori in cui incappa chi fa la giraffa!
Dott.ssa Francesca Fontanella
L’essere umano possiede una molteplicità di sistemi motivanti. I sistemi motivanti sono fattori che guidano l’individuo a manifestare un comportamento.
In alcune occasioni, motivazioni diverse entrano in conflitto tra loro (motivazione multipla), si sovrappongono e bloccano (impediscono) scelte e comportamenti.
Uno dei più noti esempi di motivazione multipla si ha quando la persona si trova in situazioni in cui, da un lato vorrebbe agire per affrontare una situazione, dall’altro vorrebbe lasciar perdere e scappare via: ‘attacco’ o ‘scappo’?
Questo meccanismo non è esclusivo dell’Uomo e appartiene a diverse altre specie animali. L’etologia ci insegna che c’è lo zampino della selezione naturale, la quale ha operato in modo tale da favorire la comparsa di una tendenza equilibratrice del livello di aggressività.
Ne deriva un comportamento formato dalle caratteristiche comportamentali sia della parte ‘attacco’, sia della parte ‘scappo’. Questo comportamento è stato chiamato ‘Lotta a Pendolo’, per il suo oscillare da una parte all’altra.
Come in ambito animale, spesso la ‘Lotta a Pendolo’ si presenta nelle situazioni in cui si percepisce una minaccia o un’intrusione nel proprio territorio. Per l’essere umano il ‘territorio’ si estende e può comprendere lo spazio fisico, di pensiero, emotivo.
La ‘Lotta a Pendolo’ si può verificare in ambito relazionale, lavorativo, di scelte di vita e provoca un dispendio di energie elevato che, nel lungo termine, può trasformarsi in somatizzazioni e disagi emotivi.
Un ottimo modello di azione terapeutica, in questi casi, è consentire alle parti che determinano la ‘Lotta a Pendolo’ di dialogare tra loro e di scoprire le intenzioni, gli scopi, i desideri l’una dell’altra. Ne può derivare la scelta di ‘nutrire’ una delle due parti oppure di integrarle l’una nell’altra, di affiancarle, di farle agire a turno… oppure, ancora, si può scoprire un’altra parte e farla diventare, a sorpresa, la preferita.
Se vi sentite in conflitto e vi va di provare,
rinnovo fino al 12 ottobre 2016 l’offerta di qualche mese fa:
Dott.sa Francesca Fontanella
Contatti:
fontanella.francesca@gmail.com
345 3741840
Che succede quando prende la Tristezza?
Parlarne con altri serve, senz’altro, ma dopo un po’… le persone, nel tentativo di incoraggiare, rivolgono incitamenti del tipo: “Dai, che passa!”.
Questi incitamenti sono apprezzabili anche se molte volte non si rivelano utili e non producono alcun cambiamento positivo.
In primo luogo, la Tristezza non è uguale per tutti. La durata, l’intensità, le ragioni scatenanti (più o meno note) e la sua utilità intrinseca sono altamente variabili.
Utilità intrinseca?
Per utilità intrinseca intendo lo scopo protettivo che la Tristezza (costituita da sensazioni, pensieri, emozioni) ha per la persona.
Scopo protettivo?
Per scopo protettivo intendo la funzione che essa ha – e ce l’ha -.
In secondo luogo, perché l’incoraggiamento potrebbe non essere ciò che cerca l’organismo in quel momento specifico.
Facciamo un esempio che riguarda i meccanismi fisiologici. Se una persona ha fame, desidera cibo; nel caso in cui qualcuno le proponesse di dormire, la persona potrebbe provare fastidio perché il suo desiderio non è rispettato.
Lo stesso può dirsi se l’organismo sta provando Tristezza: ha bisogno che l’emozione che prova sia rispettata e accolta. In questo modo, la Tristezza, piano piano, si trasformerà in nuove possibilità.
Se non è rispettata, la Tristezza insiste. La ragione è piuttosto semplice: poichè ogni emozione veicola un messaggio (per saperne di più, potete leggere l’ABC delle Emozioni, ecco la Prima Puntata), se questo messaggio non è ascoltato, si ripete. La conseguenza è che la Tristezza si protrae.
La Tristezza veicola un messaggio di pausa per recuperare le energie e cercare conforto: questo messaggio merita di essere ascoltato!
La Tristezza rallenta i sistemi cognitivi e fisiologici per ritrovare energia e, quindi, poter andare avanti nella propria vita.
Una ricerca molto recente condotta dal professore Van Den Tol, A. J. M e dalla sua equipe, descrive un fenomeno interessante che collega musica e Tristezza. La ricerca indica che la struttura del brano musicale (il tipo di accordi e il ritmo, ad esempio) e i gusti personali si intrecciano per permettere alle persone di considerare ‘tristi’ alcuni brani e non altri.
Le caratteristiche del brano possono etichettarlo come triste o felice, ma non bisogna escludere l’esperienza emozionale percepita – strettamente collegata al rapporto che l’ascoltatore ha con un determinato brano musicale (Van Den Tol, et al., 2016, 69).
L’ascolto delle canzoni ‘tristi’, secondo i risultati della ricerca, è d’aiuto nell’ accettare ed affrontare una difficoltà.
La musica ‘triste’, infatti, permetterebbe alle persone di avere una ri-esperienza del proprio vissuto e di creare uno spazio di riflessione e produzione di nuove possibilità.
Come dire che, ascoltando musica ‘triste’, la persona può rigenerarsi, sentire rispettata la sua situazione emotiva e concedersi il tempo per elaborare quanto accaduto e riprendere in mano la sua vita.
Dott.ssa Francesca Fontanella
Riferimenti Bibliografici:
VAN DEN TOL, A. J. M. et al. (2016). Sad music as a means for acceptance-based coping. Musicae Scientiae, 1, 68-83.
Il costrutto di Effetto Rimbalzo non esiste! 🙂 Mi sono inventata questo nome per descrivere un fenomeno abbastanza frequente che ha a che fare con i comportamenti guidati dalle emozioni.
Quando si prova un’emozione, si agisce un comportamento legato a quell’emozione.
Ad esempio, si può urlare per la rabbia o per il dolore, restare in silenzio e con il volto serio per la tristezza o per la rabbia, allontanarsi per la paura o per la vergogna…e così via.
Ora vi chiedo di immaginare una situazione in cui vi sia capitato di provare un’emozione e di aver agito un comportamento che non vi piace.
Potrebbe trattarsi del caso in cui, provando rabbia, si è urlato nei confronti di una persona cara, dicendo parole che possono averla ferita.
Oppure potrebbe trattarsi di un momento in cui vi siete allontanati da una situazione per la paura, lasciando un amico a cavarsela da solo.
Può succedere che, passata la fase di allarme (il picco emotivo), si cominci a percepire l’emergere di un’altra emozione, secondaria a quella che aveva portato ad agire il comportamento che non è piaciuto. Questa emozione può essere senso di colpa, rabbia, tristezza, vergogna, paura…e si riferisce o a quello che si pensa di se stessi e del comportamento agito oppure alle conseguenze che si pensa possa avere quel comportamento sulla relazione con gli altri e sulla propria vita.
Questa emozione ci si ritorce contro: il comportamento agito rimbalza contro di sé sotto forma di emozione secondaria. È l’Effetto Rimbalzo.
A me, l’Effetto Rimbalzo, piace. Mi dice molte cose rispetto al comportamento che ho messo in atto, alla persona che vorrei essere e a ciò che vorrei e potrei fare per essere me stessa al meglio.
L’Effetto Rimbalzo aiuta a conoscere le proprie reazioni, emozioni ed i pensieri sotto(e sopra)stanti; ad anticipare e prevenire le possibili emozioni secondarie e, qualche volta, anche il comportamento spiacevole.
Tutto questo vale se:
Mi permetto di suggeririvi di dare un’occhiata ai vostri Effetti Rimbalzo, per lo meno una volta. Vi invito a farlo per non finire a subire il contraccolpo con perplessità come il protagonista di questa storia popolare. La ho conosciuta grazie al collega argentino Jorge Bucay, ma credo ve ne siano diverse versioni online. Come il solito, ecco la mia.
C’era una volta un uomo che andava in giro con un mattone in mano. Aveva deciso che lo avrebbe lanciato a chiunque avesse tentato di colpirlo. Un amico prepotente gli si rivolse in malo modo e, subito, l’uomo lanciò il mattone verso di lui. Non si sa se l’uomo sia riuscito a colpire l’amico… fatto sta che gli sembrò una scocciatura dover andare a recuperare il mattone.
Pensò, quindi, ad una soluzione e attaccò al mattone una corda lunga un metro. Anche questo stratagemma non funzionò molto bene. In primo luogo, la persona da colpire doveva essere vicina altrimenti il mattone non riusciva a raggiungerla e, inoltre, il recupero del mattone non era comunque agevole: la cordicella si annodava e si incastrava sul terreno.
L’uomo, allora, pensò ad una terza soluzione e attaccò al mattone una molla. Al primo lancio, il mattone tornò indietro colpendolo sulla fronte. Al secondo lancio, il mattone tornò indietro colpendolo su una gamba. Al terzo lancio… dopo aver lanciato il mattone l’uomo aveva cercato di proteggere la vittima facendosi colpire nuovamente in pieno volto…
Tutti i colpi, cosa strana, si ritorcevano contro di lui… – osservava l’uomo, con perplessità -.
Dott.ssa Francesca Fontanella
Immagine pixabay.com/AdinaVoicu
Questo post nasce dopo aver visto un’immagine sulla pagina di un collega, il dott. Mauro Provenzani.
Ecco l’immagine:
Essa mostra un fenomeno molto comune: cerchiamo soluzioni dimenticando di avere risorse che possono offrire soluzioni più efficaci, comode e durature.
La persona ritratta nella foto, per proteggere gli occhi dalla luce del sole, alza la mano e la appoggia sulla fronte, con il tipico gesto che, probabilmente, in molti avete fatto. Il punto è che la stessa persona porta un cappellino con il frontino (molto utile per proteggere dal sole), ma lo tiene rivolto indietro e indossa, agganciati alla maglietta, un paio di occhiali da sole.
La persona ‘dimentica‘ di avere altri strumenti utili perché si è abituato alla posizione in cui si trovano e, di fatto, non li sente e non li nota.
Per capire questo punto, provate a portare l’attenzione al vostro corpo, ora. Prima che cominciaste a farlo, sentivate il tessuto dei vostri abiti sulla pelle? E il contatto dell’orologio sul polso? E degli occhiali sul naso (se li portate)?
O, ancora, vi è capitato di non trovare gli occhiali da sole e averli sulla testa? Di avere in mano quella cosa che stavate cercando?
Questo meccanismo ha a che fare con l’abituazione ad uno stimolo: dopo un po’, lo stimolo non si sente perché i recettori si sono abituati alla sua presenza e non la evidenziano più. Si tratta di un meccanismo economico per l’organismo e, in linea generale, funzionale.
Il rovescio della medaglia è che, non percependo la presenza del cappellino all’indietro e degli occhiali agganciati alla maglietta, la persona della fotografia sceglie di proteggersi con le mani: il metodo è efficace ma più scomodo.
Questo fenomeno accade anche per le proprie risorse, abilità, punti di forza…
Non li percepiamo perchè abituati, ormai da troppo tempo, a sentirli.
Quando si verifica una situazione che crea difficoltà, ansia, angoscia, nelle scelte di vita, nelle relazioni… le persone mettono in atto strategie sul momento abbastanza efficaci.
Possono dimenticare, tuttavia, di avere strumenti molto più efficaci da mettere in gioco.
In queste occasioni, dopo poco, il primo metodo utilizzato diventa meno utile o scomodo e si ricercano soluzioni alternative – talora con affanno – non notando di averle a portata di mano, grazie alle proprie esperienze e alle caratteristiche che già si possiedono.
Ecco perché lo psicologo non offre soluzioni preconfezionate e non dà consigli!
Sarebbe un po’ come porgere un altro paio di occhiali da sole quando la persona ha i suoi attaccati alla maglietta.
L’obiettivo della psicologia è insegnare a vederli, gli occhiali attaccati alla maglietta (o il berrettino rovesciato) e a scegliere di usarli se lo si ritiene utile e importante per sé.
Porgere semplicemente l’occhiale da sole nuovo significa sostituirsi alla persona e impedirle di scoprire di potercela fare. Imparare a notare gli strumenti che si hanno già e ad usarli richiede un po’ di attenzione, concentrazione, un ruolo attivo e, nel medio termine, regala autonomia e conoscenza di sé.
La psicologia si distingue in questo da altre discipline che, negli ultimi anni, la stanno ‘scimmiottando’: non porge la soluzione, ma aiuta a scoprire il proprio modo per trovarla, ora e in altre occasioni di vita. Offre un modus vivendi, una forma mentis.
[Diffidare delle imitazioni! ;)]
Dott.ssa Francesca Fontanella
Il titolo di questo articolo è tra virgolette perché rappresenta la domanda che, oggi, mi è stata posta da una persona: “Come si ottiene la felicità?“
Ci sono alcune considerazioni da fare:
Un topolino, un mattino, si svegliò con una curiosità: cosa sarà mai la felicità?
Non ci aveva mai riflettuto seriamente, ma ora la faccenda si faceva urgente.
“Felicità mi sembra un parolone!”, si disse mentre faceva colazione.
“Forse la felicità è quella sensazione che provi quando brontola il pancino e lo accontenti con un panino!” pensò il topolino…
Aveva voglia di saperne di più e dopo colazione si mise a rifletterci su.
Decise di parlarne con l’orsetto, che se ne stava con il sorriso sul musetto.
Quel sorriso rilassato e rilassante, gli sembrava un segnale interessante!
“Dimmi, orsetto, per curiosità, cos’è per te la felicità?”
“Essere abbracciato stretto, ricevere affetto anche se non sono perfetto (l’orsetto aveva un orecchio un pò staccato e il pelo consumato) e fare compagnia ai piccoli quando si addormentano nel proprio letto!”
Il topolino ringraziò, salutò e andò a parlarne con il cagnolino:
“Dimmi, cagnolino, per curiosità, cos’è per te la felicità?”
“Avere tempo per starsene accovacciati e rilassati, respirare lentamente e lasciarsi coccolare dalla gente; fare corse a più non posso e mordicchiare un gustoso osso!”
Il topolino ringraziò, salutò e andò a parlarne con l’allodola:
“Dimmi, allodola, per curiosità, cos’è per te la felicità?”
“Cantare gioiosamente e con maestria, mi dà da sempre tanta allegria!”
Ormai il topolino aveva capito e scrisse sul suo quaderno:
“Ognuno ha un modo tutto suo per ottenere la felicità e questa è, per me, la grossa novità!“
Qual è il vostro modo per ottenere la felicità?
Dott.ssa Francesca Fontanella
‘To Remember‘, in inglese, significa ricordare. Barbara Myerhoff, un’antropologa, ci insegna un interessante gioco di parole: Re-Member, ossia qualcosa come ‘rinominare i membri’, ‘ri-aggregare’.
Il modo che trovo più comodo per spiegare il significato del Re-Membering è raccontarvi della metafora – usata in pratica narrativa – del Club di Vita.
Avete presente un club? O una squadra? O un gruppo che condivide compiti e valori?
Ebbene, è possibile immaginare le persone che fanno e hanno farte parte della propria vita come membri di un club.
Il Club di Vita include le persone che si desidera siano membri del Club, anche coloro che ne hanno fatto parte in un altro periodo della propria vita e che si ritiene ancora importanti. Anche coloro che non ci sono più, ma di cui si sente la presenza .
In un club (o squadra, o gruppo… scegliete pure la metafora che più vi si addice) vi sono ruoli e posizioni che aiutano a definire compiti, responsabilità e ogni membro ha caratteristiche che lo porteranno ad avere alleanze più strette con alcuni e meno strette con altri.
Nel Club di Vita, può accadere che alcuni membri abbiano ruoli di influenza legati ad eventi passati e che, nonostante non vi sia alcuna ragione per viverne ancora l’influenza, essa persista. Può accadere, anche, che queste persone occupino posti che potrebbero, ora, essere occupati da altre persone. Può accadere che alleanze e relazioni cambino.
Ri-assegnare le posizioni, ri-aggregare, ri-nominare i membri, può consentire di far cambiare ruolo e status ad alcuni membri del proprio Club di Vita, ridurre l’influenza di alcuni e aggiungere valore alla presenza di altri. Può consentire, anche, di notare chi non si desidera faccia più parte del Club e apprezzare l’ingresso di nuovi membri.
Il Re-Membering è una speciale forma di ricordo, in cui si recupera la memoria di ogni singolo membro del Club di vita e si creano nuove connessioni tra le persone che fanno e hanno fatto parte della propria vita.
Il Re-Membering può essere svolto in qualunque momento della propria vita, per recuperare fiducia, autostima positiva, energie; per superare un momento difficile; per prendere decisioni; per orientarsi da un punto di vista professionale e personale e rimettersi al comando della propria vita.
Mi piace ricordare l’adattabilità di questo strumento ad ogni età: ne possono beneficiare adulti, ragazzi e bambini dai 5 anni.
Per i più piccoli, è uno strumento utile nei momenti di crescita e cambiamento e nelle fasi in cui vi sono modifiche nell’assetto familiare (nascita di un fratellino/sorellina, lutto, cambiamenti delle abitudini familiari, separazione dei genitori…).
Nel mio studio di Rovereto (TN), a Verona e online, propongo il Re-Membering in 2 incontri (uno da 90 minuti, un’altro da 60 minuti).
Per informazioni, potete contattare il numero 345 3741840 oppure inviare una mail all’indirizzo fontanella.francesca@gmail.com.
Dott.ssa Francesca Fontanella
Una delle emozioni che più frequentemente mi viene riportata dalle persone è la Rabbia. Esse raccontano episodi della loro quotidianità e della loro vita in cui hanno alzato la voce, sbattuto porte, alzato le mani…
La Rabbia è un’emozione (per saperne di più sulle emozioni, potete dare un’occhiata all’ABC delle emozioni: ecco la prima puntata di cinque). Per semplificare, essa tende a presentarsi quando la persona percepisce una minaccia al suo valore personale o a qualcosa che ritiene importante e in cui crede.
Il punto è che non sempre la reazione aggressiva emerge per Rabbia. Qualche volta, ad esempio, essa emerge per Paura.
Provate a pensare ad un adulto che veda il suo bambino rischiare di farsi male per una disattenzione. È possibile che, dopo averlo richiamato ed essersi assicurato che il bambino sta bene, abbia una reazione aggressiva verso di lui.
Come mai?
In quel momento, l’adulto sta scaricando la Paura, ossia quell’emozione che indica un pericolo per la sopravvivenza e la salute. La Paura, come la Rabbia, può muovere un comportamento di attacco, cioè comportamenti come le urla, le parolacce, gesti bruschi o violenti.
Non entro in questo post nel tema della violenza. Nel caso steste vivendo una situazione di violenza psicologica e/o fisica, non esitate a mettervi in contatto con il medico di base, un consultorio, uno psicologo, un’assistente sociale, un centro specializzato.
In situazioni in cui, invece, agite o vi capita di vedere agire occasionalmente da persone care comportamenti aggressivi, concedetevi un po’ di tempo per valutare quale sia l’emozione che ha portato alla reazione aggressiva.
Chiedendo direttamente all’emozione cosa ne pensa! 😉
Restando sul nostro esempio del bimbo che viene sgridato dopo aver vissuto una situazione di pericolo, ci si può chiedere: cosa mi dice questa reazione?
Una risposta potrebbe essere: “Mi dice che ho preso paura!” Et voilà! Non si trattava di Rabbia in questo caso! Si trattava di Paura! Questo semplice esercizio consente un primo passo per riconoscere le proprie emozioni, poterle condividere con l’altro (in questo caso il bambino) e agire comportamenti in linea con i propri valori.
A.Pauncz propone la metafora dell’Imbuto Emotivo. La metafora descrive le situazioni in cui le persone, poco allenate a riconoscere pensieri ed emozioni, chiamano ogni loro reazione ed attivazione fisiologica con lo stesso nome – ad esempio Rabbia -.
Il loro comportamento rischia, così, di appiattirsi e si crea un circolo vizioso, per cui il non riconoscere l’emozione rende sempre più difficile distinguere un’emozione dall’altra.
La psicologia ha messo a punto degli strumenti per imparare ad entrare in contatto con le emozioni, conoscerle, riconoscerle, distinguerle e farne uso.
I programmi di questo tipo sono programmi di alfabetizzazione emotiva. Sebbene attiri il Far da Sé, è utile appoggiarsi ad un professionista per imparare questi strumenti. Una volta acquisiti, potranno essere usati nel qui ed ora e… da ora in poi.
Dott.ssa Francesca Fontanella
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