Il sapore piccante della Rabbia: “Liget”

Il sapore piccante della Rabbia stimola a trovare le direzioni di vita. Segui il suggerimento del popolo degli Ilongot e conosci il Liget, la Rabbia positiva.

La Rabbia ha un sapore? Per il popolo degli Ilongot, nelle Filippine, il sapore della Rabbia è piccante e si chiama Liget.

Liget: l’energia rabbiosa

Per Il popolo degi Ilingot, la parola Liget corrisponde a un energia rabbiosa che muove all’azione. Che si tratti di una discesa lungo le rapide, di bisogno di riscatto, della reazione a una perdita, gli abitanti della Nuova Vizcaya utilizzano la parola Liget. Anche il sapore piccante del peperoncino è chiamto Liget, forse per quell’effetto di calore che la capsaicina – sostanza responsabile dell’effetto piccante – produce in bocca.

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Il lato positivo della Rabbia

Flessibilità

Il merito di aver portato l’attenzione sulla parola Liget va all’antropologa Michelle Rosaldo che, negli anni ’80 del 1900 restò colpita dal significato potenziante di questa parola. Abituata a considerare la Rabbia come qualcosa di negativo, le parve importante sottolinearne le componenti di vitalità e di energia positiva.

Sebbene Liget e Rabbia possano portare a scatti d’ira e a reazioni aggressive o violente, esse hanno anche il ruolo di muovere all’azione per proteggere il proprio valore personale e le cose in cui si crede, possono dare la motivazione e lo stimolo per realizzare obiettivi e per trovare direzioni di vita e strade alternative.

Liget e Rabbia possono aiutare anche a migliorarsi e a investire le proprie energie per superare ostacoli e limiti.

“Se non fosse per il Liget, non Vivremmo mai.”

Da un’intervista al popolo degli Ilongot, M. Rosaldo.

#1 Fai attenzione ai segni rivelatori

Se vuoi usare Liget e Rabbia per Vivere, – V maiuscola – come il popolo degli Ilingot, è importante fare attenzione ai segni rivelatori, spesso rappresentati dai pensieri che accompagnano queste emozioni.

Il pensiero che accompagna l’emozione è un utile indicatore di cosa stia suscitando Rabbia. Può essere importante fermarsi a ascoltarlo per indirizzare la Rabbia nella direzione voluta e non usarla come sfogo incontrollato.

Quest’ultimo, infatti, può dare origine a emozioni secondarie di senso di colpa, tristezza, paura – di perdere la stima e l’affetto di chi ha vissuto la tua Rabbia, ad esempio -.

Ricorda che non sono gli eventi a farti arrabbiare, ma tu che provi Rabbia di fronte a certi eventi!

#2 Nota dove si localizza la Rabbia nel corpo

Senti la Rabbia a livello viscerale? Ti fa male la testa? Hai un nodo allo stomaco? Un formicolio alle braccia?

Concentrati sulla sensazione e prova a “respirarvi dentro”, falle spazio e dalle un nome e delle caratteristiche.

Qualche  esempio tratto da situazioni reali (ringrazio le persone che hanno condiviso le loro Rabbie) :

Melma paludosa, sporca, densa, subdola.

Rabbia rigida, grigia, fredda, amara.

Slavina, indifferente, prepotente, fischiante.

Schiaccia-sassi, forte, lenta, non lascia niente di intatto.

#3 Riconosci la Rabbia per tempo

Abituati a riconoscere i pensieri e le sensazioni associati alla Rabbia e fai in modo di notarli mentre arrivano. La Rabbia è un’emozione e, come tale, ha un decorso “a onda”. Se riesci a percepire i primi segnali della Rabbia, puoi indirizzarla meglio, evitando di agire al culmine dell’onda, quando l’emozione e talmente forte da farti comportare in modo precipitoso e, spesso, poco utile e costruttivo.

#4 Impara a usare la Rabbia

Questo passaggio è quello che può richiedere più allenamento e scivolini e scivoloni sono all’ordine del giorno.

Per cominciare, puoi tenere un diario in cui appuntare i pensieri e le sensazioni che accompagnano la Rabbia nelle diverse situazioni, il livello di intensità della Rabbia (da 0 a 10) e il modo in cui hai reagito. Ricorda di appuntare, anche, se ti sei piaciuto/a o no, come potresti migliorare e, se ti sei piaciuto/a, come hai fatto a usare bene la Rabbia.

#5 Osserva le reazioni che la Rabbia suscita negli altri

Fallo nelle prossime occasioni e nota cosa provoca la Rabbia negli altri, sia quando sono loro a provarla, sia quando tu la mostri loro.

Hai fatto i 5 step di questo articolo e ora vuoi saperne di più?

Scrivimi la tua esperienza a fontanella.francesca@gmail.com

 

Riferimenti Bibliografici:

La Storia del Liget è tratta da:

Watt Smith, T. Atlante delle Emozioni Umane. Ed Utet. 2017.

 

Il mal di testa passa se perdi le staffe!

Perdere le staffe può essere un utile rimedio al mal di testa! Scopri come puoi ridurre o eliminare il dolore da cefalea con la Visualizzazione della Rabbia.

Stai cercando un rimedio per il mal di testa? Forse, ora, provi una certa curiosità per il titolo di questo articolo. Vorresti scoprire un rimedio che non hai ancora provato oppure ti aspetti che questo articolo faccia dell’umorismo?

Io spero che tu qui possa trovare un’idea per te nuova – da declinare a modo tuo – e al contempo che tu possa divertirti un po’!

Tutto iniziò quando…

Lo scorso anno partecipai a un interessante corso di aggiornamento sulle emozioni. Per la prima volta – paradossalmente – mi si parlò dell’importanza di distinguere tra emozioni soppresse – annullate – e represse – controllate -.

Fu anche proposta una riflessione rispetto al tipo di somatizzazioni causate dalla soppressione e dalla repressione delle emozioni e, tra queste, si parlò di mal di testa.

Mal di testa da tensione (repressione)

Alcuni dei metodi (non farmacologici) che sono utilizzati per trattare le cefalee hanno a che vedere con il rilassamento muscolare. La tensione e l’irrigidimento dei muscoli del corpo sono una componente del mal di testa e sono connessi alla repressione delle emozioni.

Ossia…

Repressione delle emozioni >> tensione e irrigidimento muscolare >> mal di testa.

Non è tutto qui, ma facciamola facile per proseguire con l’articolo e andare al dunque.

Prima possibilità: il rilassamento e le visualizzazioni

Rilassamento e visualizzazioni

Puoi iniziare a ridurre il mal di testa imparando tecniche di rilassamento e utilizzando le visualizzazioni.

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Si tratta di strumenti che diverse professioni declinano in  modi differenti tra loro. Sto pensando all’utilizzo che se ne può fare nello yoga o in incontri di meditazione, ad esempio. Se chiedi a uno psicologo di accompagnarti in un percorso specifico di questo tipo, gli esercizi e le tecniche verrano declinati in chiave psicologica. In questo caso, l’aspetto differenziale che trovo più rilevante è la collaborazione tra psicologo e cliente/paziente che porta a una co-esplorazione di significati e a una co-creazione di “soluzioni”.

Qualche volta, il rilassamento non funziona…

Di fronte a uno scorato terapeuta, alcuni confessano di non trovarsi affatto bene con il rilassamento e di non riceverne alcun giovamento.

Il rilassamento ha favorito loro il sonno, ha permesso di vivere con più agilità il quotidiano, ma il mal di testa è rimasto e si ripresenta con la stessa frequenza – o quasi! – e la stessa intensità. Se non trovi giovamento dal rilassamento…

… allora è il caso di perdere le staffe!

«L’espressione ‘perdere le staffe’ viene dalla particolarità di alcuni pantaloni da uomo… perché, anticamente, erano allacciati con un tipo speciale di bretelle, le staffe, appunto… Che, una volta perse… Insomma: l’espressione vuol dire ‘trovarsi in balìa di tutto’… ‘essere indifesi’, capito?».

http://www.treccani.it

Detta così pare chiaro perché, nel quotidiano, se possibile, si preferisca non perdere le staffe.

Ebbene, chi non perde le staffe reprimendo la rabbia e, al contempo, non riesce e farsi rispettare, è a rischio mal di testa!

Usare le Visualizzazioni della Rabbia

Visualizzazione della Rabbia

Può essere utile immaginare di esprimere la rabbia e di perdere le staffe.

Immaginare, per l’appunto, di modo da non trovarsi indifesi e senza brache. 😉

Nella relazione con gli altri e con se stessi la rabbia merita di essere scaricata in un modo che non porti conseguenze negative.

Nell’immaginazione, tuttavia, si può osare qualche parolaccia e urlo di troppo, il lancio di oggetti, sfoghi fisici… ma anche ironia e sarcasmo laddove, nella “realtà” non puoi usarli, silenzi oppositivi, ripicche…

Tutte queste azioni aggressive che sei solito/a evitare per questioni etiche e di convivenza sociale, puoi agirle nell’immaginazione, permettendoti la liberazione della rabbia.

Questo potrà aiutarti in due modi, principalmente:

  1. La rabbia liberata (non più repressa) farà rilassare i muscoli che il solo rilassamento non risuciva a far rilassare;
  2. La rabbia, una volta scaricata la sua componente più impulsiva, potrà essere usata come motore all’azione e consentirti di ottenere ciò che è importante per te.

Nella pratica…

Lo sai già, per fare un lavoro accurato potrebbe essere necessario l’aiuto di uno psicologo che utilizzi le visualizzazioni  e le immaginazioni guidate.

Intanto, se vuoi provare a sperimentare da te, puoi fare così.

  • Scegli una canzone che, per te, rappresenti la rabbia;
  • Chiediti che tipo di rabbia rappresenti la canzone che hai scelto: aggressiva, oppositiva, difensiva…
  • Chiediti come si manifesterebbe quel tipo di rabbia in una questione della tua vita che ti fa provare rabbia: quali gesti, quali parole…
  • Fai suonare la canzone e visualizza te stesso/a mentre fai quei gesti e quelle parole.
  • Interrompi la canzone quando vuoi tu.
  • Ripeti, se necessario.

Allenati con questo esercizio una volta al giorno, pensando a qualcosa che ti ha fatto provare rabbia e utilizzalo dopo aver vissuto episodi in cui hai represso la rabbia.

In questo modo dovresti prevenire i mal di testa.

Qualcuno si trova bene a svolgere l’esercizio mentre ha mal di testa. Può essere più difficile e richiedere la capacità di fare spazio al “dolore pulito”. Ma questa è un’altra storia.

Soffri di mal di testa? Prova la Visualizzazione della Rabbia e poi fammi sapere come ti trovi! Il tuo contributo è prezioso!

Scrivi a fontanella.francesca@gmail.com

 

Riferimento bibliografico essenziale:

Porges, S.W. The Polyvagal Theory: Neurophysiological Foundations of Emotions, Attachment, Communication, and Self-regulation. W W Norton & Co Inc, 2011.

 

 

 

 

 

Una decisione da prendere…

Ho una decisione da prendere e, mentre utilizzo questo strumento creativo che conosco, lo condivido con te…

La questione mi pare stia in quella parola: “prendere“. Una volta che si è presa la decisione, la si è presa. La si può anche mollare?

In molte situazioni sì. Sto pensando alle piccole e grandi decisioni quotidiane che possono essere modificate o, addirittura, reversibili.

Per questo tipo di decisioni potrebbe interessarti Decidere di decidere: il dilemma della scelta.

Tuttavia, mi trovo in un situazione personale in cui debbo scegliere per la mia salute. Ohibò… qui la faccenda si fa multi-sfaccettata e prendere la decisione implica prenderla e tenermela.

Premetto che non ho ancora deciso anche se…

Volendo metterci tutta la sincerità, mi ci sto dedicando poco e sto rimandando la decisione con quel fare un poco buffo che ha l’essere umano in alcune occasioni: evita, procrastina, aspetta… Strategia poco utile, come immaginerai!

Nonostante questo, è arrivato il momento di mettermici con impegno.

Porsi domande che possano aiutare

Per prendere una decisione, ci sono alcune domande che può valere la pena porsi e che, qualche volta, sono la chiave per decidere. Ad esempio puoi chiederti:

  1. Qual è la storia della situazione?
  2. Quali obiettivi ho?
  3. Quali valori ho?
  4. Chi è importante per me? Cosa direbbe?
  5. Per ogni opzione di scelta:

    1. Cosa mi trattiene?
    2. Cosa mi attrae?

Se non basta o se questo ti sembra un esercizio che ti porta a rimuginare senza arrivare alla decisione, puoi provare…

Il Dialogo tra le Parti (a modo mio)

Una decisione da prendere_

Questo strumento nasce dalla descrizione di R. Dilts e lo ho incontrato per la prima volta grazie al collega Antonio Amatulli. Ho scelto, nella pratica clinica, di integrarlo alle tecniche immaginative e alla narrazione pertanto, dell’esercizio originale resta solo la scocca.

L’esercizio può essere usato nel caso in cui la decisione dipenda dalla sensazione di sentirsi in conflitto con se stessi. Mi spiego meglio.

Mettiamo che una persona debba decidere se andare a un appuntamento a piedi oppure in auto. Questa decisione potrebbe dipendere dal meteo, dal tempo a disposizione, dalle distanze, dalla disponibilità dell’auto… Queste variabili non implicano un conflitto con se stessi.

Se, invece, andare a a piedi implica la libertà perché, andando in auto, la persona sarebbe costretta a dare un passaggio a una persona che non apprezza… bè, potrebbero entrare in gioco alcuni valori che sembrano contrastarsi: libertà e rispetto di sé; disponibilità e rispetto per l’altro.

Quando entrano in gioco valori di questo tipo, la decisione può essere percepita come un conflitto.

Il Dialogo tra le Parti arriva in soccorso e aiuta a dipanare i nodi del conflitto dando spazio all’esplorazione dei valori e trasformandoli in personaggi che possono dialogare tra loro e confrontarsi rispetto alle loro risorse e alle loro aspettative.

Questo gioco comunicativo e narrativo aiuta la persona a comprendere le ragioni di entrambe le parti, trovare eventuali punti d’accordo oppure simpatizzare per una delle due.

Trasformando il conflitto da “interiore” a “esteriore”, si facilita la decisione.

Questo esercizio richiede un’ora di tempo e un po’ di pratica per essere utilizzato in modo efficace e non risultare solo un virtuosismo fine a se stesso. Una volta acquisito, potrai usarlo in autonomia in altre situazioni di conflitto decisionale.

Hai una decisione da prendere? Quale? Che ne pensi de Il Dialogo tra le Parti?

Puoi scrivermi le tue riflessioni a fontanella.francesca@gmail.com

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TSS – Terapia a Seduta Singola: qualche volta, basta un incontro!

Eccomi qui! 🙂 Sono passati diversi giorni dall’ultimo articolo. Priorità lavorative e personali mi hanno distratta dallo scrivere e ora sono pronta per raccontare qualcosa di più rispetto alla Terapia a Seduta Singola, modello in cui mi sono formata recentemente, per proseguire il mio aggiornamento professionale.

[In questa pagina web trovi i nominativi di tutti gli psicologi che utilizzano la Terapia a Seduta Singola in Italia.]

In questi giorni ho ricevuto diverse domande sulla Terapia a Seduta Singola che sintetizzo in questo articolo stile FAQ.

Singola vuol dire proprio Singola?

TSS_Terapia a Seduta Singola_proprio singola

La parola Singola, in questo modello di lavoro, significa:

  • Ogni incontro merita di essere valorizzato e trattato come se fosse l’unico. In questo modo puoi aspettarti di usare bene il tuo tempo e i tuoi soldi, massimizzando l’efficacia della singola seduta;
  • In alcune situazioni, l’incontro singolo è sufficiente;
  • A ogni incontro singolo può seguirne un altro, quando e se lo desideri.

Si è liberi di scegliere se si vuole una seduta singola o no?

La Terapia a Seduta Singola vuole dare la possibilità di godere di percorsi brevi o brevissimi – una seduta! – qualora li si preferisca e, al contempo, di scegliere percorsi di accompagnamento più lunghi.

Quest’ultima scelta può dipendere dal tipo di situazione vissuta e dalle aspettative rispetto alla terapia. Per esempio, potresti desiderare un percorso psicologico di crescita personale oppure uno spazio di ascolto in particolari momenti di vita. In tali casi, forse, non è l’incontro singolo ciò che chiedi!

In queste occasioni la Terapia a Seduta Singola può essere declinata all’interno di ogni singolo incontro – per massimizzarlo, come si diceva – oppure non essere usata affatto.

La Terapia a Seduta Singola non è una regola!

Nel momento in cui chiedi una consulenza a uno psicologo che utilizza la Terapia a Seduta Singola, potrai valutare con lui se questa sia la modalità adatta a te o se, invece, desideri o hai bisogno di un percorso più lungo.

Questo dettaglio è importante perché non è detto che ti serva una Terapia a Seduta Singola, né che tu la voglia!

In  breve… Libertà di scelta: sì!

Quali strumenti usa il terapeuta a seduta singola?

Mmm… rispondo con la metafora della gruccia appendiabiti (che non è mia, me l’hanno insegnata i docenti della formazione! 😉 )

La gruccia appendiabiti, di per sé, è uno strumento che ha lo scopo di offrire un supporto per gli abiti. Ci puoi mettere la giacca elegante o il giubbino sportivo, un abito di pizzo o in jersey, una camicia country o di seta, una casacca, un giaccone invernale…

Così avviene anche per la Terapia a Seduta Singola: fa da gruccia appendiabiti, su cui ogni psicologo appende il suo modo di fare psicologia, secondo approcci e metodologie che ha studiato e integrato nella sua pratica professionale.

Questo significa che i terapeuti a seduta singola lavorano secondo una forma mentis simile, ma con approcci e metodi diversi.

Alla gruccia si appendono competenze tecniche professionali specifiche, competenze e conoscenze trasversali e extra professionali, caratteristiche e esperienze personali del terapeuta…

Io, ad esempio ci appendo…

Gruccia Terapia Seduta Singola

Sulla gruccia io appendo la Terapia Narrativa, come cornice teorica dominante. Appendo ciò che mi insegna la Terapia Centrata sulla Soluzione e ciò che sto approfondendo rispetto all’Acceptance and Commitment Therapy.

E poi… ci appendo il counseling espressivo e attività di arte-terapia. E le tecniche di rilassamento. E quelle immaginative, che mi piacciono molto. Ci appendo ciò che ho imparato della fisiologia del sistema nervoso e dei modi in cui cicatrizzano le ferite emotive.

Alla gruccia appendo anche gli interessi extra psicologici che, ogni tanto, mi tornano utili anche nel mio lavoro; le mie storie e esperienze personali affinché mi aiutino a ascoltare e sentire le storie che mi racconta chi mi chiede un aiuto; alcune caratteristiche personali che mi accorgo di portare nel lavoro: ora mi vengono in mente l’ospitalità, la disponibilità, la curiosità, l’autenticità.

Ogni terapeuta appende cose diverse alla gruccia della Terapia a Seduta Singola.

Cosa posso aspettarmi da una Terapia a Seduta Singola?

Il terapeuta che utilizza la Terapia a Seduta Singola è concentrato ad aiutarti a trovare soluzioni e vie d’uscita a partire dalle tue caratteristiche personali e dalle tue competenze.

In un momento di difficoltà, potrebbe non essere saggio aggiungere alla difficoltà vissuta una seconda difficoltà, ossia dover agire, ipso facto, in modo molto distante dal proprio usuale.

Puo essere più utile facilitare i primi cambiamenti  – o passi verso il cambiamento – a partire da cio che sai e fai già trovando modi alternativi per usare le cosiddette risorse personali.

In un incontro di Terapia a Seduta Singola, parlerai di ciò che ti crea disagio e di ciò che vorresti cambiasse. Imparerai qualche strumento pratico e scoprirai perché le soluzioni tentate finora non sono bastate. Co-esplorerai con il terapeuta le risorse utili e co-creerai un piano d’azione, sulla linea delle tue esperienze personali.

Parole chiave: persona (e personalizzazione), risorse, massimizzare il tempo dell’incontro.

Davvero è possibile risolvere un problema in un incontro?

È possibile. Dire a priori se ti basterà un incontro o se ne serviranno altri è un azzardo che, personalmente, non sento di fare. Le variabili in gioco quando si vive una situazione di disagio sono tante e non esiste una valutazione che abbia valore predittivo certo.

Tuttavia… ti è mai capitato di aver sentito qualcuno a cui è cambiata la vita dopo un’ esperienza oppure a seguito delle parole di una persona cara?

Ebbene, in quei casi, si è prodotto un cambiamento, una svolta o si è risolto un problema, addirittura senza l’aiuto professionale.

Molte persone risolvono i problemi psicologici senza un consulto professionale. Per altri, è sufficiente il “tocco leggero” di una singola visita.
Michael Hoyt

La riflessione che stimola questa constatazione è:

preso atto che possono avvenire cambiamenti grazie a “momenti terapeutici quotidiani”, si possono immaginare le ricche potenzialità di un cambiamento guidato dalle domande e dagli strumenti offerti dalla psicologia.

La Terapia a Seduta Singola insegna che questo è possibile  anche in un solo incontro.

E se un incontro non mi basta?

Se un incontro non basta, al primo incontro ne possono seguire quanti ne serviranno!

Ognuno di questi avrà l’obiettivo di aggiungere un tassello alla conoscenza di te, per permetterti – il prima possibile – di cominciare a vivere secondo i tuoi valori.

“Il prima possibile”… Questa terapia mette fretta?

TSS_Terapia a Seduta Singola_mette fretta

Mi hanno fatto la domanda in tanti! No, non mette fretta. Anzi, il modello stesso ripete l’importanza di non correre e di rallentare. Ti dirò di più, ho l’impressione che proprio il rallentamento sia ciò che permette di ridurre i tempi di terapia.

Quando ci si rivolge allo psicologo capita che i pensieri siano tanti e le parole… altrettante! Nel vortice rapido di pensieri e parole ci si può perdere. Le domande e il lavoro co-creativo aiutano a rallentare, a soffermarsi e, in definitiva, a conoscersi e a (ri)scoprire soluzioni e direzioni utili per la propria vita.

Vuoi saperne di più sulla Terapia a Seduta Singola?

Scrivimi le tue domande a fontanella.francesca@gmail.com: sarò lieta di rispondere e condividere con te questo tassello di psicologia.

Una proposta di Consulenza Singola.

Puoi saperne di più anche nel sito dell’Italian Center for Single Session Therapy, presso il quale mi sono formata.

Vivere con il dolore cronico: 4 (+1) strategie

Una recentissima ricerca offre 4 (+1) strategie per ridurre il dolore cronico e i suoi effetti collaterali emotivi e relazionali.

Il dolore cronico è frequente: in Europa si stima l’incidenza del dolore cronico non oncologico al 22% della popolazione.

Cosa si intende per dolore cronico?

La IASP (International Association for the Study of Pain – 1986) definisce il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno.

E’ un esperienza individuale e soggettiva, a cui convergono sensoriali, esperenziali e affettive.

Il dolore cronico è duraturo, spesso determinato dal persistere dello stimolo dannoso e/o da fenomeni di automantenimento, che mantengono la stimolazione nocicettiva anche quanto la causa iniziale si è limitata. Si accompagna ad una importante componente emozionale e psicorelazionale e limita la performance fisica e sociale del paziente. E’ rappresentato soprattutto dal dolore che accompagna malattie ad andamento cronico (reumatiche, ossee, oncologiche, metaboliche..). E’ un dolore difficile da curare: richiede un approccio globale e frequentemente interventi terapeutici multidisciplinari, gestiti con elevato livello di competenza e specializzazione.

http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?id=3769&area=curePalliativeTerapiaDolore&menu=terapia

Gli effetti psicologici del dolore cronico

Il dolore cronico può generare ansia, tristezza e depressione, diminuzione della fiducia in se stessi e calo dell’interesse nelle relazioni interpersonali.

Questo può avere ripercussioni in ambito familiare e lavorativo amplificando il disagio emotivo e, ahimè, anche il livello di dolore cronico!

Infatti, avendo il dolore una componente affettiva, una situazione di disagio emotivo può accentuare la percezione del dolore, aumentandone, di fatto, il livello.

Le strategie per vivere con il dolore cronico

Una recentissima ricerca – dettagli in bibliografia – di L. Phillips, ha esplorato le strategie di resistenza al dolore cronico, identificandone 4 tipi principali:

  1. Strategie di distrazione: svolgere attività di interesse che, distraendo, alleviano il dolore;
  2. Strategie di spostamento del focus: simili alle precedenti, con la differenza che la persona sposta volutamente l’attenzione su altro rispetto al dolore. Tra queste strategie potremmo annoverare la mindfulness e altre tecniche di rilassamento e immaginative;
  3. Strategie di indagine: esplorazioni delle cause del dolore e approfondimento delle soluzioni per ridurre il dolore;
  4. Ri-negoziazione relazionale: azioni volte a restituire equilibrio alle relazioni interpersonali, messe in discussione dal terzo incomodo del dolore cronico.

Ce n’è una quinta…

Phillips propone, anche, un’altra stategia. Ella ritiene utile porre, a chi soffre di dolore cronico e le chiede un aiuto terapeutico, la  questa domanda:

“Vuoi parlare del dolore o c’è qualcos’altro che ti preme di più?”

Phillips ha osservato che, quando le persone preferiscono parlare di altri temi (di altre difficoltà)  connessi e non al dolore cronico, si crea uno spazio terapeutico in cui sperimentano la possibilità di essere attive nella risoluzione delle difficoltà – con conseguente aumento dell’autostima positiva e del senso di autoefficacacia —

Inoltre, il tema di cui preme loro parlare, si rivela  premere – metaforicamente – anche sul dolore, accentuandolo. Talora, se ne rivela una delle cause. Parlare di altre questioni e difficoltà e trovare soluzioni, influenza positivamente anche la percezione del dolore, il cui livello diminuisce.

Cosa suggerisce questo studio?

Lo studio di Phillips offre due spunti di riflessione:

  1. L’importanza di trovare strategie personali in almeno una della categorie proposte;
  2. L’utilità di indirizzare le proprie energie a parlare di temi e questioni alternativi al dolore cronico.

Lo studio ci dice che, attraverso queste due modalità, è possibile ridurre il dolore, ridurne gli effetti collaterali psicologici e scoprirne cause inesplorate.

Soffri di dolore cronico e vuoi allenarti a ridurre il dolore?

Parliamone e cerchiamo le domande e le risposte più utili a te!

Fonti:

Phillips, L. (2017). A Narrative Therapy Approach to Dealing with Chronic Pain. The International Journal of Narrative Therapy and Community Work, 1, 21-30.

http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?id=3769&area=curePalliativeTerapiaDolore&menu=terapia

Emma e la Paura dei ragni

Come Emma ha cambiato la sua relazione con i ragni e con la Paura dei ragni grazie alle tecniche immaginative, al suo nipotino e a un giornale per ragazzi…

Ogni tanto ho l’onore di raccontare le storie di persone che arrivano da me, costruiscono soluzioni utili e desiderano condividere i loro risultati. Oggi vi racconto di Emma (nome di fantasia) e della Paura dei ragni.

Aracnofobia e Paura dei ragni

Tecnicamente, l’Aracnofobia e la Paura dei ragni sono diverse. Secondo i manuali diagnostici, la fobia è pervasiva e più intensa della Paura. Dato che, tuttavia, qualche volta è difficile distinguerle e dato che, tutto sommato, questa distinzione non ha poi così importanza, parlerò di Paura dei ragni.

Emma non li sopporta!

Io i ragni non li sopporto! Schifosi e inutili, li trovi dappertutto!

La Paura dei ragni di Emma è di lunga data: non le sono mai piaciuti, ma ora, da un po’, le capita di sognarli. Nei sogni si fanno grandi e la sovrastano, impedendole di respirare.

Capita così che, durante il giorno, quando ne vede uno – e Emma scova i ragni con molta precisione! – comincia a mancarle il respiro, perché ricorda i suoi sogni.

Mi prende l’ansia perché immagino che, da un momento all’altro, il ragno diventi grande e mi sovrasti. Anticipo quello che di solito accade nel sogno accade e mi trovo senza respiro, in affanno!

Le proviamo tutte (o quasi!)

Vorrei svelare un segreto: qualche volta, per co-costruire le soluzioni, ci vuole tempo, pazienza e la disponibilità a provare, sperimentare, capire cosa funzioni e cosa no. È il caso di Emma: arriva da altre terapie e ha provato molte strategie di auto-aiuto, ma non è riuscita a risolvere il problema.

In prima battuta, anche io e lei non riusciamo a creare il cambiamento desiderato, anche se arrivano piccoli miglioramenti.

Ad esempio, ci concentriamo sul sogno e ne emergono interessanti riflessioni di tipo simbolico che le permettono, a un certo punto, di non fare più questi incubi. Ma la Paura dei ragni persiste.

Lavoriamo con tecniche di risoluzione emotiva rapida e queste aiutano Emma a concentrarsi meno sui ragni. Non passa più il suo tempo a fare una scansione degli angoli delle stanze e anche in studio non guarda più con sospetto la pianta – finta! -alla ricerca di un ragno. Però, se vede un ragno, di nuovo quella sensazione di soffocamento.

Un aiuto inaspettato

Emma ha un nipotino che adora leggere i giornali di scienze per bambini. Un pomeriggio, Emma si trova con il suo nipotino e vede un ragno. Preoccupata per le sue reazioni, inizia subito a concentrarsi sulla respirazione.

Che fai zia?

Ho visto un ragno!

Quello?

— [Emma continua a respirare]

Perché stai così concentrata?

Respiro perché sennò mi prende la Paura dei ragni.

Il nipotino prende, da un mucchio, una rivista e lo sfoglia in cerca di qualcosa…

Quando la trova si ferma e mostra alla zia l’immagine di un ragno con gli stivali di gomma!

Sai zia, i ragni, con tutti questi stivali, si inciampano!

Zia e nipote ridono insieme, ma Emma non sa che…

Ragno_stivali
Immagine tratta da Gli Speciali di Focus Junior n.134/2015

Quell’immagine è la svolta!

All’incontro successivo Emma mi racconta questo episodio e mi chiede di riprovare con le tecniche immaginative usando l’immagine del ragno con gli stivali di gomma.

In un paio di incontri e con l’esercizio costante tra un incontro e l’altro, Emma supera la Paura dei ragni che diventano animaletti con gli stivali che inciampano a ogni passo. Quando li vede, non le si blocca più il respiro.

Emma ci scherza su:

Poveracci, non è neanche questione di scarpe! Qualsiasi scarpa non sarebbe comoda per loro!

Quando il nipotino e Focus Junior sono terapeutici! 😉

Hai superato una paura?

Raccontaci come hai fatto a cambiare il tuo rapporto con lei! fontanella.francesca@gmail.com

La risposta è dentro di te?

Domande e risposte, uno sketch di qualche anno fa, un esperimento vintage e un’idea personale.

Chissà quanti anni hai… io ne ho 37, anche se sono del 1979. Compio gli anni in novembre e amo godermi tutto l’anno senza anticipare i conti. Se sei molto più giovane di me potresti non conoscere Quèlo. Lui è quello che diceva: “La risposta è dentro di te. Epperò, è sbagliata!“.

La risposta è dentro di te?

Si è soliti usare una metafora secondo la quale le risposte sono dentro le persone. Penso che, come tutte le metafore, anche questa sia una possibile descrizione di ciò che si vuole rappresentare.

Il senso è più o meno: non cercare chissà dove le risposte ai tuoi problemi perché, alla fin fine, la risposta ce l’hai tu.

In effetti, chi mai potrebbe avere le risposte e la capacità di rispondere (respons-abilità) per la propria vita se non la persona stessa?

Io, ‘sta risposta, non la trovo!

Questo commento lo ricevo, più o meno, una volta al giorno! Qualche volta me lo dico pure io stessa: ‘sta risposta, non la trovo!

Le risposte arrivano se ci sono le domande.

Una persona correva per le strade gridando:

“Ho le risposte! Ho le risposte! Chi ha una domanda?”

Storia Ebraica

Le domande, per dare risposte utili, debbono essere parimenti utili. Il compito della domanda è suscitare una risposta: più la domanda è volta a stimolare una risposta utile, più sarà importante porla.

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Dove origina la risposta

La risposta è data da un’elaborazione da parte dell’organismo degli stimoli che riceve nel presente, dalle esperienze già fatte e dalle aspettative rispetto al futuro. In questo senso, la produzione della risposta è interiore: cervello e altri componenti del sistema nervoso cooperano per produrre una risposta: verbale, emotiva, d’azione…

La risposta, per la stessa ragione – ossia perché dipende dall’elaborazione di stimoli -, potrebbe essere definita esteriore.

Ti racconto di un esperimento del 1931, condotto da Norman Meier.

Quanti  modi riesci a immaginare per legare due funi?

Meier appese due lunghe funi al soffitto di una stanza. La stanza era piena di oggetti, mobili, attrezzi e arnesi e le corde erano posizionate in modo che, tenendo l’estremità di una corda, non si riuscisse ad afferrare l’altra.

A chi entrava nella stanza era chiesto:

Quanti modi riesci a immaginare per legare le estremità delle funi?

Le soluzioni possibili, per questo compito, sono quattro:

  1. Tirare una fune verso l’altra, ancorarla a un oggetto e poi andare a prendere la seconda fune;
  2. Ricorrere a una terza fune da legare a una delle due per farla diventare più lunga e permettere a chi la afferra di raggiungere anche l’altra fune;
  3. Afferrare una fune con una mano e con l’altra usare un arnese (ad esempio un bastone) per tirare a sé l’altra fune;
  4. ?

La soluzione 4 consiste in: far oscillare una fune verso l’altra per avvicinarle e riuscire ad afferrarle.

Questa soluzione venne in mente solo ad alcuni partecipanti all’esperimento, inizialmente. Poi…

Il gesto “casuale”

Meier introdusse una variabile. Lasciò le persone riflettere per alcuni minuti e poi, senza dire nulla, si spostò muovendosi verso la finestra e, “casualmente“, sfiorò l’estremità di una fune facendola dondolare.

Accadde che quasi tutti a quel punto seppero identificare l’oscillazione come quarta soluzione possibile.

Faccenda curiosa, nessuno seppe riferire al gesto appena visto la propria risposta: tutti si trovarono a dare narrazioni della loro risposta legate a esperienze e conoscenze passate e a previsioni sul moto fisico delle funi in oscillazione.

La soluzione n.4 pare quindi emergere dall’elaborazione sensoriale dello stimolo presente + ricordi (passato) + capacità di prevedere (futuro).

La risposta è dentro il tempo?

Ecco la mia curiosità: la risposta – che dipende dalle domande – è dentro il tempo?

Più faccio questo lavoro, più vivo la mia vita personale e più penso che la risposta alle  domande sia dentro il tempo e si crei nell’intreccio di passato, presente e futuro…

… E più penso che dipenda dalla qualità delle domande che mi pongo.

D. Epston

Riferimenti bibliografici:

Maier, N.R.F. (1931). Reasoning in Humans: The Solution of a Problem and Its Appearance in Consciousness. Journal of Comparative Psychology, 12, 181-194.

I Pre-giudizi sono utili? C’è chi dice sì!

Cosa sono i pre-giudizi? Come nascono? Quando possono essere positivi? Esempi pratici e un utile suggerimento di approfondimento

Tema caldo: i pregiudizi, i pre-giudizi. Ossia i giudizi dati prima di conoscere.

I pregiudizi possono anche essere positivi

Un giudizio può essere positivo o negativo in base a come si valuti ciò che si sta giudicando. Una cosa che piace e viene apprezzata riceve un giudizio positivo, mentre una cosa che non piace e non è apprezzata riceve un giudizio negativo.

Lo stesso vale per i pre-giudizi. Si può dare un giudizio positivo o negativo prima di conoscere e partire prevenuti in negativo o positivo:

A me i politici non piacciono!

Quello vestito così mi sembra il classico tipo che tira bidoni!

Le mamme sono apprensive.

Quelli/e che non fumano sono persone affidabili.

La ho assunta perché le donne di […] sono oneste.

Oh-Oh! Cosa noti? Comunque vada, anche quando viene data un’opinione positiva, il pre-giudizio è causato da una generalizzazione.

Le generalizzazioni

Le generalizzazioni sono una modalità linguistica (e non solo!) che tende a raggruppare in categorie persone, oggetti, fenomeni…

Questa strategia del cervello è molto utile per aiutare a risparmiare tempo. Si immagini, per esempio, la moltitudine di fiori esistenti: sebbene siano molto diversi tra loro e ognuno abbia caratteristiche e nome unici, trovandosi di fronte a un fiore sconosciuto – da qualunque prospettiva – si è in grado di dire, con un certo grado di sicurezza, che quell’oggetto appartiene alla categoria “fiore”. Vi sono molte eccezioni a questo esempio, ma prendilo per quello che è: un’esemplificazione, così come vorrebbe essere un’esemplificazione ogni generalizzazione – anche se a volte complica le cose -.

Quando le generalizzazioni traggono in inganno

Le generalizzazioni, ossia queste scorciatoie cognitive utili per far risparmiare tempo e energie, possono trarre in inganno. Come negli esempi sopra. Prendiamone uno:

Le mamme sono apprensive.

Per poter esprimere questa frase, il cervello ha fatto un raggruppamento inserendo le mamme in una categoria. Per certi versi ci può andare bene: mamma è colei che ha un figlio biologico o adottivo.

La faccenda si complica quando si arricchiscono le categorie con dettagli arbitrari. In questo caso, l’apprensione è una caratteristica attribuita alla categoria delle mamme.

Ora, che può accadere?

Si può generare il cosiddetto “stereotipo“. Uno stereotipo è una sorta di modello rappresentativo di una categoria; in questo caso, “mamma apprensiva” è lo sterotipo, il modello, di ciò che la persona si aspetta che sia una madre.

Tuttavia…

  1. Una mamma che non sia apprensiva è meno mamma?
  2. Una mamma deve sforzarsi di essere apprensiva per fare la mamma?
  3. Una mamma deve compiacersi dell’apprensione in quanto caratteristica must have di una mamma?
  4. Una mamma è sempre apprensiva?
  5. Proprio tutte le mamme sono apprensive?

Le generalizzazioni sono un tipo di pre-giudizio poco utile e poco rispettoso delle unicità individuali e, per questo, possono portare a discriminazioni.

Un esempio spicciolo di discriminazione causata da generalizzazioni e pre-giudizi? Non assumere mamme nei posti di lavoro perché la loro attenzione sarebbe rivolta ai figli anziché ai loro compiti professionali.

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Quando il pre-giudizio è utile

Un tipo diverso di pre-giudizio può derivare da un fenomeno chiamato thin-slicing – tagliare a fette sottili -.

Questo fenomeno descrive la capacità del cervello di identificare in modo rapido e frugale una particolare struttura di situazioni e comportamenti, basandosi su “fette sottili” dell’esperienza che si sta vivendo.

Un esempio piuttosto comune è la sensazione che qualcuno non piaccia “a pelle”: il cervello produce una scansione rapida della situazione e valuta, in via di solito prudenziale, che è opportuno stare alla larga da quella persona. In questo caso, l’informazione può rivelarsi utile e proteggere da pericoli o esperienze sgradevoli e dannose.

In un batter di ciglia

Per approfondire questo tema interessante, vi suggerisco la lettura di un libro di Malcom Gladwell, In un batter di ciglia. Il libro narra diversi esempi di stereotipi e pre-giudizi, alcuni dei quali assolutamente non funzionali. Dedica anche spazio ai pregiudizi utili che sono, di fatto, impalpabili e inesplicabili intuizioni.

Noi, come esseri umani, abbiamo questo problema […] Siamo un po’ troppo pronti a dare spiegazioni di cose per le quali in realtà non abbiamo una spiegazione.

M. Gladwell

 

Psico-Recensione: Famiglia all’improvviso

Una breve recensione di un film al cinema in queste settimane: Famiglia all’improvviso.

Sabato sera ho visto un film, al cinema: Famiglia all’improvviso, del regista parigino Hugo Gélin. Ho pensato di farne una psico-recensione, sperando di stare alla larga da antipatici effetti spoiler!

Recensisco perché…

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Ho scelto di fare una psico-recensione a questo film per 3 motivi:

  1. Offre una rappresentazione della vita come spazio-tempo ricco di emozioni
  2. Descrive un modo bello – per me – di fare il genitore
  3. Ammette la possibilità che i lieti fine non siano lieti fine e che un finale non lieto possa portare con sé anche una parte lieta (un discorso così bello intrecciato non ve lo ho mai fatto vero?)

Probabilmente finirò con l’intingere questo articolo in una colata di melassa. Non è il mio stile, ma ogni tanto ci sta che ci si lasci andare ai sentimentalismi! 😉

Spazio-tempo emotivo (come se non ci fosse un domani)

Sin dall’inizio del film ci si trova in un tourbillon emotivo: stupore, sdegno, gioia, euforia, paura, rabbia, tristezza, dolore, senso di ingiustizia, senso di impotenza, gratitudine…

I personaggi della storia e gli spettatori vivono la legittimità di provare emozioni diverse, anche “contrastanti” e di farne buon uso per concedersi una vita piena.

Rapidamente le scene passano da un’emozione all’altra e raccontano, ad esempio, l’esperienza di usare la rabbia per reagire al dolore e di usare la tenerezza per affrontare la paura.

Si narra anche di rese e di riscatti, di amore e di coraggio, di sacrificio e sensi di colpa. Un mix di tutto rispetto che fa onore a ciò che accade nella vita.

Un genitore che dona vita

Il genitore che si incontra con questo film è un genitore vivace, disponibile, creativo, generoso, apparentemente poco apprensivo, eppure attento – attentissimo -.

Sa prendersi cura, sa essere disimpegnato; sa essere ardentemente impegnato; sa mentire per amore; sa usare la sincerità per amore.

Mi piace vedere questo modello di genitorialità perché porta con sé vitalità che, a ben vedere, è un altro modo di donare la vita.

Lieto fine, finale non lieto, chissà!

Qui sono in allarme spoiler quindi dico solo che, quando è finito il film non mi era chiaro quante emozioni stessi provando e così è capitato a chi era con me.

Non so quale parola userete voi per riassumere la trama del film: io scelgo Vita.

Istruzioni non incluse.

[Per chi ha già visto il film, penso potrebbe essere utile collegare la conclusione  a questo articolo oppure a questo.]

 

Storie di lacrime: il racconto sorprendente di una bambina

Una bambina racconta cosa ne pensa delle lacrime: ne esce una storia sorprendente!

Le lacrime hanno una storia!

Così esordisce una bambina e inizia a raccontare quello che ora intitolo:

“Storie di Lacrime”

Le lacrime sono una cosa intima e ci si vergogna a mostrarle alla gente. Ma non è stato sempre così!

Nella storia dell’evoluzione abbiamo perso la possibilità di leccare le lacrime. Gli animali, quando esce una lacrima, la leccano. Tutti dicono che lo fanno per il sale, ma lo fanno per assaggiare la lacrima e capire di quale emozione è!

Così si comunica come ci si sente e le cose si fanno più facili.

Gli uomini invece nascondono le emozioni e se piangono sono casi rari!

Mio fratello è piccolo e quando piange non si capisce perché: basterebbe assaggiare la lacrima!

La tristezza non ha lo stesso sapore di quando si è arrabbiati! E esistono le lacrime di gioia…

Non dico che io ora assaggerei le lacrime degli altri però abbiamo un altro modo: ci sono delle persone speciali, nel mondo, che sanno assaggiare le lacrime degli altri senza assaggiarle davvero.

Sono quelli che ti lasciano piangere senza dire: “Non piangere!” Sono davvero interessati alle lacrime e, magari, ti chiedono perché piangi. Quello è assaggiare le lacrime.

Quando una lacrima esce è come se fosse una parola trasparente.

Ti faccio un esempio: se qualcuno mi tratta male e piango, quelle lacrime dicono parole. “Triste”, “Dispiacere”, “Non è giusto!”, “Pace”… però queste parole non si sentono e non si leggono e per questo non si capiscono subito. Però puoi chiedere a chi piange quali parole gli stanno uscendo dagli occhi e cambia tutto.

Ho scoperto questa cosa qui da te e la ho provata fuori. Fa smettere di litigare e fa voler bene. Funziona con tutti eccetto con mio fratello che non parla ancora. Ma parlerà.

I miei occhi nel frattempo si fanno lucidi e penso a queste lacrime trattenute, divenute intime per l’evoluzione – come suggerisce questa bambina sensibile e brillante – e che portano parole trasparenti…

Credo dicano “Grazie…”.